Tackle

La storica ipocrisia dello sport professionistico

Se i padri fondatori dell’Olimpismo moderno vedevano il male nel professionismo, ora il male è nella sua assenza

di Antonella Bellutti

Sport e professionismo condividono una lunga storia di ipocrisie, la cui origine coincide con la nascita stessa dello sport moderno. Il barone (sempre lui) De Coubertin, in seguito ai suoi studi, era fortemente convinto che la decadenza dello spirito olimpico dell’antica Grecia fosse dovuta alla corruzione, diffusa dal dilagare del professionismo. Irremovibile fu dunque nel decidere che il progetto per i Giochi dell’era moderna dovesse necessariamente escludere atleti che ricevessero compensi in denaro per le proprie prestazioni o che si sottoponessero ad allenamenti e tecniche per il miglioramento dei risultati; conclusione incoraggiata e sostenuta convintamente anche dagli esponenti del puritanesimo anglosassone che accostava, senza esitazioni, il professionista al peccatore.

Una regola che venne estesa indirettamente anche agli eventuali allenatori, sebbene non previsti (dato che non era accettato il concetto di preparazione specifica), ma evidentemente necessaria per contemplare delle eccezioni: dal rispetto di questo principio fondamentale furono infatti esentati i maestri di scherma prima e di equitazione poi, due discipline di nicchia frequentate solo dalla nobiltà, ritenuta moralmente più integra!

Così ebbe inizio un percorso che arriva ai giorni nostri attraverso eclatanti squalifiche, clamorose esclusioni, tristi discriminazioni. Penso ad esempio all’ostacolista francese Guy Drut, campione olimpico nel 1976, squalificato dopo aver dichiarato: «Lascio lo sport, perché non me la sento più di vivere in un mondo dove l’ipocrisia è di norma. Il dilettantismo esiste solo nelle parole e nei giuramenti». Si consolò poi diventando ministro delle Politiche giovanili e dello SportPenso a discipline come il tennis che, giudicando intollerabili le li…