Senza i gruppi sportivi militari e dei Corpi dello Stato, si dice, lo sport ad alto livello, quello di interesse nazionale e olimpico, morirebbe. Ed è senz’altro vero, considerando il contesto sportivo e istituzionale, ma ciò che viene difficile è pensare seriamente a un’alternativa se si ragiona sempre in base alla logica della pigrizia cognitiva secondo la quale “si fa così perché si è sempre fatto così”. Che in certi casi abbia funzionato benissimo e in altri meno nemmeno importa: se non si è mai cambiato, ci sarà un motivo.
Ora, anche nello sport lo status quo è figlio di una serie di pratiche e politiche, filosofiche e legislative, consolidatesi nel tempo – parliamo di decenni, non di mesi – e dalle quali è scaturito il perimetro entro il quale ci si muove. Basta questo per capire che un intervento strutturale, che andrebbe a toccare l’esistente dalle fondamenta per giungere a una definizione differente della materia, necessiterebbe di anni per assorbire i cambiamenti. Significa, insomma, ragionare indicativamente nell’ordine di un paio di quadrienni olimpici, ed è chiaro come il mondo dello sport d’élite – che ama misurarsi attraverso i numeri del medagliere, i quali dovrebbero essere considerati solo uno dei tanti aspetti e possono essere influenzati da diversi fattori contestuali – veda come sabbia negli occhi anche la sola ipotesi di dover vivere un tale periodo di transizione. Il tempo di assestarsi ed eventualmente anche sbagliare nessuno v…