focus_2Monografia

Di parole, media e percezioni

Perché le storie paralimpiche sembrano permeate di pietismo? Perché ne parliamo solo ogni quattro anni? Perché certi termini sono più corretti di altri?

Parliamoci chiaro: al netto di coloro che negli sport paralimpici altro non vedono che una triste rappresentazione delle tragedie («Non si dovrebbero fare perché sembra una specie di riconoscenza o di esaltazione della disgrazia», disse Paolo Villaggio nel 2012 a La Zanzara, ma è un concetto poi ripreso e aggiornato da diversi opinionisti dalla sedicente ideologia “cattivista”), anche per gran parte degli altri l’esaltazione per le storie degli atleti paralimpici arriva a cadenza quadriennale. Con le Paralimpiadi, insomma, che hanno ovviamente un notevole impatto mediatico a differenza di tutto il resto dell’attività, Mondiali ed Europei delle varie discipline compresi, dei quali si occupano solamente le testate specializzate. La domanda, allora, è volutamente provocatoria: perché non è mai vera gloria?

Il discorso è complesso, ma merita diverse riflessioni anche da parte di chi, come noi, lavora nei media occupandosi di sport e magari analizza pure ciò che accade nell’ecosistema dei mezzi di comunicazione di massa. In questo senso, il problema degli sport paralimpici non è dissimile da quello che sperimentano quotidianamente tutti gli altri sport che non sono calcio, pallacanestro, volley, il grande nuoto o la grande atletica (senza annoverare, per motivi diversi, gli sport motoristici): la mancanza di spazio, anche al cospetto di manifestazioni e risultati significativi che vengono relegati frequentemente ai margini di calciomercato, gossip, polemiche che un tempo avremmo definito da bar ma oggi si sono evolute in contrapposizioni da social, marchette varie. Sì, il resto esiste, ma bisogna cercarlo, e se questo accade già per le discipline dei normodotati, che inevitabilmente hanno una tradizione più lunga, figurarsi per gli sport paralimpici che partono già di loro con un certo svantaggio dal punto…

Lorenzo Longhi
Emiliano, ha esordito con il primo quotidiano italiano esclusivamente web nel 2001 e, da freelance, ha vestito (e smesso) casacche anche prestigiose. Di milioni di righe che ha scritto a tamburo battente gran parte è irrilevante. Il discorso cambia quando ha potuto concedersi spazi di analisi.