Un calcio senza tifosi ha molto meno senso e, di questo, ce ne siamo accorti nel periodo della pandemia: chi, in quel periodo, per qualche motivo abbia avuto la possibilità di assistere alle partite negli stadi vuoti se ne è facilmente reso conto. Il calcio senza i tifosi forse nemmeno esisterebbe. Ma il calcio senza gli ultrà è esistito, e in Italia quel periodo storico, ormai lontanissimo, è anche quello nel quale il gioco è diventato compiutamente lo sport popolare per eccellenza del Paese.
Stadi pieni all’inverosimile (impianti con gradinate e gradoni, seggiolini solo nelle tribune centrali, rare coperture), tifosi letteralmente di ogni ceto sociale, qualche lenzuolo con messaggi di incoraggiamento che oggi, abituati al linguaggio ostile, ma quasi sempre in rima baciata, ispirano tenerezza e fanno sorridere. Il pubblico anni Cinquanta e anni Sessanta, che si contraddistingueva per l’assenza di coordinamento e organizzazione, la passione delle ombrellate e delle scazzottate in tribuna (non sono mai mancate, anche se erano estemporanee), ma che non mancava di cori di incitamento di piccoli gruppetti, è quello che ha in qualche maniera contribuito a fare del calcio lo sport del popolo, lo ha permeato di sfottò, di rivalità di campanile nell’Italia dei mille campanili sui quali, poi, hanno prosperato le rivalità ultrà. Un fenomeno che ha vissuto fasi alterne – banalmente: il tempo passa, i leader invecchiano, i contesti cambiano e ogni fenomeno vi si adegua – ma che ha potuto contare s…