È un dettaglio di una memoria personale e in assoluto insignificante, questo: alcuni mesi fa, nel variopinto caleidoscopio delle maglie che indossavano alcuni compagni di calcio di uno dei miei figli – anzi, a dire il vero i ragazzini più grandi, la categoria Pulcini –, tra maglie di Manchester City, Paris Saint-Germain, Juventus, Milan e Inter (in provincia scordatevi o quasi quelle delle squadre della città), dell’Italia o del Brasile, eccone comparire una rosa. Numero 10, Messi: è quella dell’Inter Miami. Poche settimane dopo, una nera. Numero 10, Messi: è quella dell’Inter Miami, quella da trasferta, la celeberrima away. Ora, non è da un’occhiata empirica che si possono trarre generalizzazioni, ma se uno vuole riflettere sul calcio globalizzato, sul neoliberalismo e sul futuro del gioco, può partire anche da qui, da una delle tante scuole calcio delle frazioni di comuni sostanzialmente insignificanti e fuori da ogni giro.
Il punto, qui, riguarda però il solo Messi, che appunto è Messi, e basta questo: verosimilmente oggi quel bambino conoscerà tutto dell’Inter Miami, così come, altrettanto verosimilmente, non ne sapeva nulla prima. Ma un mito e un mito, e se il mito va da una parte, lo si segue, perché oggi i calciatori sono brand anche superiori ai club con i quali scendono in campo, almeno sino a quando continuano a essere in attività, dunque sul breve periodo (medio, per i più longevi). I club sono superiori sul lungo periodo, e su questo devono ragionare, ma il percorso sul lungo può essere reso più semplice, a livello di riconoscibilità, dalla spinta dei calciatori-brand, quelli alla Messi e Cristiano Ronaldo appunto. Ecco: in questo senso, ne sta beneficiando l’Inter Miami – che peraltro è notoriamente il club di David Beckham – ma, considerando come è governato il massimo campionato nordamericano, in realtà ne sta beneficiando l’intera Major League Soccer. Se Messi è negli States, c’è un…