di Antonella Bellutti
Nel mondo del tennis moderno, dove disciplina e rigore sembrano dettare legge (Sinner docet) dal Roland Garros emerge una figura che rompe gli schemi: Alexander Bublik, talento russo, naturalizzato kazako, con il suo stile istrionico e la sua irriverenza sfida le regole non scritte del gioco. La sua presenza però non è solo spettacolo: apre un dibattito più ampio sull’idea di ribellione nello sport e su quei campioni che, nel corso della storia, hanno scardinato le convenzioni, dividendo pubblico e critica.
Bublik è molto più di un eccentrico: con i suoi colpi imprevedibili, le palle smorzate, le battute taglienti (non i servizi ma le stoccate verbali) e un apparente distacco dal risultato, incarna una forma di trasgressione che va oltre il tennis. Nel pantheon degli sportivi fuori dagli schemi, il suo nome si affianca a leggende come John McEnroe, il “bad boy” del tennis anni ’80, noto per le sue sfuriate contro gli arbitri ma anche per il suo stile di gioco unico, fatto di volée spettacolari e una sensibilità tattica fuori dal comune. O Dennis Rodman, il re dell’imprevedibilità NBA, indimenticato per i suoi capelli colorati e la sua fantasia tattica, un difensore feroce, un rimbalzista instancabile, capace di cambiare le sorti di una partita senza bisogno di segnare punti. La sua ribellione era anche sociale, con atteggiamenti che sfidavano le norme della lega e della cultura sportiva americana. Ma in un certo senso erano ribelli anche Agassi che, con il suo look provocatorio dai capelli lunghi, gli abiti sgargianti e il rifiuto iniziale di giocare a Wimbledon per via del dress code, ha incarnato una ribellione estetica e filosofica e aperto gli occhi sull’agonismo forzato, imposto. O lo è Tamberi con la sua mezza barba e le molle che nasconde nelle scarpe per dare spettacolo a salto riuscito.
Ma cosa significa davvero essere un ribelle nello sport?
È una sfida alle regole imposte, un’espressione di autenticità o un modo per resistere alle pressioni dell’agonismo?
Dal mito ma non-modello Maradona ai nuovi interpreti della non-conformità, la figura dell’atleta resta una scintilla che accende uno sport più umano, imprevedibile e, forse, ancora più affascinante.
Il ribelle non è semplicemente un atleta irrequieto per il gusto di esserlo: la sua esistenza è necessaria per il progresso del gioco/sport, per spezzare l’omologazione che troppo spesso rischia di ingabbiare la creatività e, soprattutto, per cercare di non perdere sé stessi nella ricerca del risultato.
Il ribelle è colui che, con le sue azioni e il suo atteggiamento, costringe l’intero sistema a riflettere sulla propria natura. Ecco perché, nella storia dello sport, figure come Bublik sono essenziali: non solo intrattengono ma offrono un’alternativa, un modo diverso di intendere il talento e la competizione.
Prendiamo ad esempio Valentino Rossi, il maestro della ribellione su due ruote. Il suo stile aggressivo, la sua capacità di rompere le gerarchie, il suo modo di esprimere il talento con un’ironia pungente lo hanno reso un campione ma anche simbolo di indipendenza e irriverenza. Oppure Muhammad Ali, che ha trasformato la sua capacità di contestare in un manifesto politico e sociale e il ring in un palcoscenico per il cambiamento.
Ma forse nel tennis, la figura del ribelle è ancora più significativa perché lo sport stesso è impregnato di tradizione e rigore, formalismi che una disciplina antica e d’élite ha mantenuto nonostante il passare del tempo e la diffusione sempre più estesa della sua pratica.
Bublik, con un atteggiamento apparentemente scanzonato, infrange il dogma dell’iper-efficienza tecnica e della compostezza emotiva. Non è semplicemente un provocatore, ma un innovatore che mette in discussione il concetto stesso di vittoria e di bellezza nel gioco. Se McEnroe ridefinì il ruolo dell’atleta con il suo temperamento impetuoso, Bublik sembra rifiutare l’ossessione moderna per la perfezione, riportando il tennis a una dimensione più spontanea e quasi ludica. Ed è proprio questo che affascina: il ribelle porta con sé un senso di libertà che contagia. Non segue il copione scritto, ma lo strappa e ne inventa uno nuovo. E per quanto possa irritare, per quanto possa sembrare fuori luogo nel paradigma dell’agonismo esasperato, resta una figura indispensabile.
Perché lo sport, come la vita, ha bisogno di chi osa infrangere le regole per ricordarci che la vera grandezza non risiede nella conformità, ma nell’originalità che nasce dall’audacia di essere sé stessi.
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Antonella Bellutti vince la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Atlanta 1996 e poi di Sydney 2000 in due differenti discipline del ciclismo su pista, dopo un infortunio che le blocca una promettente carriera nell’atletica leggera. Chiude l’agonismo con il settimo posto alle Olimpiadi invernali di Salt Lake City 2002, nel bob a 2, diventando così l’unica atleta italiana ad aver fatto parte della squadra nazionale assoluta di tre federazioni diverse e ad aver partecipato sia all’edizione estiva che invernale della manifestazione a cinque cerchi. Laurea in Scienze Motorie con molteplici esperienze di profilo tecnico, dirigenziale e didattico in ambito sportivo. Attivista per i diritti nello sport e per lo sport come diritto di cittadinanza.