di Nicola Sbetti
Come previsto da mesi, mercoledì 11 dicembre 2024 in occasione del Congresso straordinario, con una votazione online al limite del farsesco, i membri della FIFA hanno ufficialmente assegnato a Marocco, Portogallo e Spagna (con annesso prologo sudamericano) il Mondiale maschile del 2030 e all’Arabia Saudita quelli del 2034.
Ci sarebbero molte cose da dire su come sia stato gestito questo congresso, oggi qui però vorrei unicamente concentrarmi sulla decisione, presa da tempo ma ora ufficializzata, di far organizzare all’Arabia Saudita il Mondiale del 2034.
Questa scelta è per molti versi legittima. Il Regno dell’Arabia Saudita è uno Stato sovrano, pienamente inserito nella comunità internazionale in cui da quasi un secolo si è affermata una certa cultura calcistica che ha portato la nazionale maschile a vincere tre edizioni della Coppa d’Asia e a partecipare per sei volte alla fase finale del Mondiale. Negli ultimi anni, poi, il governo ha massicciamente investito nel mondo del calcio attraverso il suo fondo sovrano, fra le altre cose, acquistando il Newcastle, sponsorizzando diversi club (fra cui anche la Roma) e la FIFA (con Aramco), organizzando competizioni di altri campionati (ad esempio la Supercoppa spagnola e italiana) e rivoluzionando la Saudi Pro League in un campionato capace di attrarre a suon di riyal autentiche star come Cristiano Ronaldo, Benzema e Neymar.
Meno legittimo e accettabile per la comunità calcistica è stato invece il modo con cui la FIFA, o per meglio dire Gianni Infantino, ha permesso all’Arabia Saudita di organizzarlo. Non dimentichiamoci che inizialmente la corsa al Mondiale del 2030 vedeva in lizza non solo Spagna e Portogallo (con l’aggiunta di Ucraina prima e Marocco, poi) e Uruguay, Paraguay e Argentina, ma anche l’Arabia Saudita in una barcollante candidatura con l’Egitto e la Grecia. Tuttavia, dopo che a settembre 2023 i sauditi avevano rinunciato alla corsa per il 2030, il 4 ottobre 2023 è successo un fatto clamoroso. Infantino ha, infatti, annunciato che le candidate rimaste in corsa per il 2030 avevano raggiunto un accordo per il quale le tre partite inaugurali si sarebbero svolte in Argentina, Paraguay e Uruguay e il resto del torneo in Spagna, Portogallo e Marocco e che quindi si poteva aprire con ben 10 anni di anticipo la corsa non solo al Mondiale del 2030 (ormai di fatto già assegnato) ma anche a quello del 2034.
Gli storici del futuro ci spiegheranno come Infantino ha convinto i membri della candidatura sudamericana non solo a rinunciare al Mondiale del 2030 ma anche a un’eventuale candidatura nel 2034 in cambio di tre misere partite, sta di fatto che a quel punto il capolavoro a vantaggio di Bin Salman era ormai allestito, si trattava soltanto di finalizzarlo.
Considerato che in nome del principio della rotazione delle confederazioni il Nord America (organizzatore del 2026) ma a quel punto anche l’Europa, l’Africa e per sole tre partite anche il Sud America (2030) erano tagliate fuori, la FIFA ha annunciato che solo i Paesi delle confederazioni asiatica e oceanica potevano candidarsi.
Dopodiché, siccome oltre all’Arabia Saudita che guarda caso aveva sottoposto la candidatura solo 81 minuti dopo l’apertura delle candidature, anche l’Australia (reduce dal successo del Mondiale femminile co-organizzato con la Nuova Zelanda) stava timidamente valutato se avanzare una candidatura, la FIFA ha pensato bene di chiudere ogni discorso lasciando aperte le candidature per soli 25 giorni.
Insomma la candidatura saudita ha vinto non perché fosse la migliore, ma perché la FIFA ha fatto di tutto per evitare che ne potessero nascere di concorrenti. Del resto fra l’assegnazione de facto di fine 2023 e l’assegnazione formale dell’11 dicembre 2024 a certificare questo accordo fra gentiluomini ecco entrare fra i top sponsor della FIFA la compagnia petrolifera Aramco.
«Fifa money is your money» aveva promesso Infantino nel discorso elettorale che lo ha portato a diventare il successore di Blatter e finora sta mantenendo fede alle promesse.
Poi, certo, rispetto ci sarebbe anche la questione dei diritti umani violati e di un regime non democratico, ma è un aspetto che a ben vedere tocca solo tangenzialmente il mondo del calcio. Nella storia abbiamo avuto diversi Mondiali in regimi non pienamente democratici: Italia 1934, Messico 1970, Argentina 1978, Russia 2018, Qatar 2022 che, al netto di qualche protesta esterna, si sono svolti sempre regolarmente. Non dimentichiamoci delle parole dell’ex segretario della FIFA Valcke quando nel 2013 disse: «Per organizzare una Coppa del Mondo, a volte, meno democrazia è meglio».
Insomma, per quanto sia assolutamente legittimo per chi rivendica un mondo più democratico e rispettoso dei diritti umani prendere di mira quelle edizioni dei Mondiali che non rispettano certi standard etici, è altrettanto legittimo da parte della FIFA in nome dell’universalità che esprime assegnare eventi in Paesi non democratici.
O almeno sarebbe legittimo se si fosse intellettualmente onesti e si ammettesse che la scelta dell’Arabia Saudita è stata solo ed esclusivamente una questione di soldi, come certifica chiaramente l’accordo sottoscritto con Aramco.
Se si fosse brutalmente onesti però la credibilità della FIFA, su cui fanno leva molte altre sponsorizzazioni provenienti da multinazionali occidentali, verrebbe meno e così accanto a tutta la melassa retorica del calcio che in un mondo diviso è capace di unire i popoli, ecco che sia nel report che da il via libera alla candidatura saudita, sia nel discorso di Infantino torna il mito dei grandi eventi capaci di portare cambiamento sociale e politico.
Ma da dove viene questo mito?
Nella storia solo in un’occasione, i Giochi Olimpici di Seoul 1988, un mega evento sportivo ha funto da vincolo esterno favorendo il processo di democratizzazione in corso. Ma anche in quell’occasione i Giochi non furono certo né il fattore scatenante, né quello decisivo. Semplicemente la visibilità dell’evento a fronte di una impressionante spinta democratica della società civile, impedì al governo di ricorrere alla violenza. Violenza che soli 20 anni prima il governo messicano non aveva esitato ad esercitare contro i manifestanti in piazza delle Tre Culture.
Quello di Seoul è quindi un caso isolato. Nella stragrande maggioranza dei casi, gli eventi sportivi organizzati in Paesi autoritari da Berlino 1936 a Qatar 2022, compresa la tanto celebrata Coppa Davis del 1976 in Cile o le chiacchierate Olimpiadi del 2008 a Pechino hanno rafforzato e non certo indebolito il regime in carica.
Eppure la FIFA e Infantino, nel vendere all’opinione pubblica Arabia Saudita 2034, ci raccontano non soltanto che la candidatura saudita era obbiettiva, trasparente, rispettava gli standard di integrità e di impegno nel rispetto dei diritti umani, ma andava oltre sostenendo che il Mondiale saudita potrà fungere da catalizzatore per trasformazioni sociali positive.
E, allora, se lo slogan di Arabia Saudita 2034, come affermato dagli stessi sauditi, sarà «Calcio, unità e progresso», potremmo forse ancora sopportarlo, ma decostruiamo almeno l’ipocrita retorica di Gianni Infantino che seduto sul trono della FIFA sostiene che dai prossimi Mondiali ci aspettiamo «miglioramenti sociali» e «un impatto positivo sui diritti umani».
Il Mondiale del 2034 (così come quelli del 2026 e del 2030) non porteranno cambiamenti sociali, ma come tutti i grandi eventi porterà a vincitori e vinti e sul tavolo dei vincitori faranno di tutto per esserci Infantino e i membri della FIFA perché è vero che in questo assurdo e farsesco congresso straordinario la FIFA ha dato un messaggio di unità, ma lo ha fatto non in nome della passione per il calcio ma per quella dei soldi che Re Infantino distribuisce con la stessa maestria del suo predecessore per assicurarsi la rielezione.
Come possiamo pretendere Mondiali “democratici” se la FIFA ha sempre meno spazi di discussione e assomiglia sempre di più a una monarchia tecnocratica? Urge cambiare la FIFA e per farlo è necessario una voce che vada oltre a quelle di Norvegia e Svizzera, uniche a prendere posizione contro la più imbarazzante assegnazione di Mondiali della storia. E dati i precedenti, non era facile.
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Nicola Sbetti insegna all’Università di Bologna. Si occupa di storia dello sport e del rapporto fra sport e politica. Membro del Consiglio direttivo della Società Italiana di Storia dello Sport.