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Il draft NBA, antidoto al risultatismo tossico

Insieme al salary cap è uno dei punti virtuosi della NBA e non solo. Due concetti alla base: stesso salario e prime scelte ai più deboli

di Roberto Gennari

Mentre come sempre al di qua dell’Oceano Atlantico ci si barcamena – non solo nel calcio, anzi forse ancora di più negli altri sport – tra squadre che scompaiono, paracaduti finanziari in caso di retrocessione, auto-retrocessioni – ebbene sì, abbiamo vissuto abbastanza a lungo per vedere anche questa – e chi più ne ha più ne metta, nello sport USA, che come almeno in parte saprete se lo seguite un po’ o se avete letto le puntate precedenti di questa rubrica, il fatto che non esista il concetto di ‘retrocessione’ rende gli investitori molto più tranquilli circa le sorti dei propri averi, con l’ovvia postilla che più in alto si è, più si spende, più si guadagna, in linea di massima.

Ma come hanno fatto negli States a limitare ­­– non eliminare del tutto, ci mancherebbe: lì entrano in gioco fattori diversi da quello della semplice disponibilità economica – i comportamenti ‘tossici’ di chi, pur di vincere a tutti i costi, sarebbe stato disposto a spendere letteralmente una fortuna?

La risposta sta in due concetti, definiti da tre semplici parole inglesi: salary cap (tetto salariale) e draft (selezione). Oggi ci occuperemo del secondo, per capire meglio come funziona e cosa significa quando sentiamo dire, ad esempio, che Paolo Banchero è stato chiamato con la prima scelta assoluta al draft NBA 2022. Sostanzialmente, il draft non è altro che una selezione, appunto, dei migliori giocatori tra i 19 e i 22 (23 in casi particolari, tipo infortuni che costringano a saltare un’intera stagione) anni di età, che non abbiano ancora un contratto con una franchigia della lega professionistica intenzionata a sceglierli, definiti pe…