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NBA e salary cap

Il tetto salariale, nella pallacanestro statunitense, insieme con il draft, è un meccanismo che cerca di mantenere l’equilibrio, economico e tecnico, tra le varie franchigie

di Roberto Gennari

Nelle puntate precedenti di questa rubrica abbiamo parlato a grandi linee di come funziona il meccanismo di riequilibrio nel basket NBA tra squadre forti e squadre più deboli attraverso il draft, cioè – nel caso in cui ve lo foste perso o dimenticato – il sistema di priorità tramite il quale le squadre possono “scegliere” i giocatori under 22 non ancora sotto contratto con una franchigia NBA, con un salario annuo che è lo stesso indipendentemente dalla squadra in cui si andrà a giocare e che è tanto più alto quanto più alta è la scelta: in parole povere, il primo a essere chiamato in assoluto (quest’anno è stato quello che noi speriamo diventi il nostro, nel senso che non vediamo l’ora di vederlo in maglia azzurra, Paolo Banchero) è quello che riceve il salario più alto, e gli altri ne hanno più basso proporzionalmente al numero di chiamata.

L’altro meccanismo con cui la Lega di basket più famosa e ricca del mondo cerca di mantenere l’equilibrio tra le squadre è quello del cosiddetto salary cap, o tetto salariale, che da noi nel calcio ad esempio rappresenta una discussione infinita che si concretizzerà con ogni probabilità alle calende greche – e che è stata goffamente interrotta con l’introduzione di un efficacissimo (sarcasmo) concetto chiamato “fair play finanziario” – e che negli States invece esiste da decenni, e viene periodicamente rinegoziato.

Se volete sapere in dettaglio tutte le particolarità del salary cap della NBA, il sito Overtime – Storie a spicchi ha realizzato un’esaustiva audioguida (che trovate qui) nonché una versione testuale (