Tackle

“Big market” vs. “Small market”

Ovvero, come mai anche in NBA l’uguaglianza perfetta tra squadre non esiste

di Roberto Gennari

Uno dei passaggi più famosi e giustamente celebrati e citati della letteratura del secolo scorso è quello dei comandamenti stilati nella «Fattoria degli animali» narrata da George Orwell: tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Ovvio che non possiamo trasportare questo concetto a piè pari in un campionato sportivo professionistico come la NBA, peraltro regolato da un sistema di tetto salariale che vi abbiamo già illustrato in una puntata precedente di questa rubrica. Il punto è: come mai, per l’appunto, in un sistema in cui i contratti dei giocatori sono regolamentati, il tetto massimo idem, è più facile che giocatori con uno status conclamato di superstar finiscano a giocare a Los Angeles, Miami, San Francisco, Brooklyn o Philadelphia piuttosto che a Oklahoma City, Salt Lake City, Sacramento, Charlotte o Indianapolis (che pure ha una passione viscerale per il basket)?

La risposta è complessa e semplice insieme: il punto è sempre quello di considerare lo sportivo professionista come un’azienda, e inserito in un contesto squadra, come un asset. Se la cosa può scandalizzare, capiamo il principio ma dobbiamo rispondere con un’altra citazione letteraria del Novecento, stavolta di Pirandello: «così è se vi pare».

Perché nella Lega dove le regole sono fatte per favorire l’alternanza in vetta (e qualcosa che funziona in queste regole c’è, se consideriamo che dal 2011 a oggi hanno vinto almeno un titolo ben otto squadre diverse, di cui tre al primo successo della loro storia), ciò che ad esempio spinge un giocatore a trasferirsi da Toronto a Los Angeles, come fece Kawhi Leonard nel 2019, che lasciò il Canada da campione NBA per guadagnare sostanzialmente gli stessi soldi ai Clippers, è la prospettiva per nulla velata di guadagnare più soldi grazie all’esposizione mediatica che gli viene garantita da un “…