Monografia

I costi sociali dell’inattività fisica

Lo sport non è solo agonismo, ma salute. E in Europa, purtroppo, l’attività fisica quotidiana è insufficiente nello stile di vita di una persona su tre

Che l’importanza della salute si debba esprimere, alla fine, con una cifra a effetto sul piano economico, è piuttosto scoraggiante. Ma lo spirito del tempo è esattamente questo, il denaro comanda, e allora chi si è occupato, nei mesi scorsi, di tradurre sui media il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (quella che per gli italiani è l’OMS e ufficialmente è la WHO, World Health Organization) e dell’OCSE (per noi Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, per tutti gli altri (OECD, Organization for Economic Co-operation and Development) sull’inattività fisica dei cittadini, ha battuto principalmente sui costi che questa ha per il sistema sanitario, soprattutto laddove – come in Italia – è universalistico e, dunque, rappresenta una delle più rilevanti voci di spesa per le casse dello Stato.

Ecco, appunto: secondo il rapporto (intitolato, tradotto ovviamente, “Affrontare il peso dell’insufficiente attività fisica in Europa”; lo trovate in bibliografia), in trent’anni (di qui al 2050) l’inattività fisica dei cittadini italiani costerà al Sistema Sanitario Nazionale circa 1,3 miliardi di euro per trattare le malattie correlate all’assenza di movimento. Non è molto consolatorio sapere che la Germania è messa peggio – si stima, nello stesso periodo, una spesa di 2 miliardi – e che la Francia è sostanzialmente al livello dell’Italia (1 miliardo). Si tratta di spese necessarie per la cura di quelle che, tecnicamente, vengono definite malattie non trasmissibili come malattie cardiovascolari, depressione, diabete di tipo 2 e diversi tipi di tumore. Tralasciando l’aspetto economico, di che numeri parliamo, dal punto di vista degli individui, insomma delle persone? Ebbene, questi: nell’Unione Europea il 45% delle persone afferma di non fare mai esercizio fisico o …

Lorenzo Longhi
Emiliano, ha esordito con il primo quotidiano italiano esclusivamente web nel 2001 e, da freelance, ha vestito (e smesso) casacche anche prestigiose. Di milioni di righe che ha scritto a tamburo battente gran parte è irrilevante. Il discorso cambia quando ha potuto concedersi spazi di analisi.