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Heysel, una lezione vana

La tragedia del Heysel ha insegnato poco o nulla al calcio italiano. Ecco perché

Aveva ragione Antonio Gramsci, torinese e interessato, anche se non tifoso, di calcio: “La storia insegna, ma non ha scolari”. Quarant’anni dopo la tragedia dello stadio Heysel dove morirono 39 tifosi, per la quasi totalità italiani, ha lasciato pochi insegnamenti, per non dire nessuno, al nostro calcio.

Violenza fedele compagna Quello che accadde a Bruxelles la sera del 29 maggio 1985, oltre che essere il risultato dell’incompetenza della UEFA e delle autorità belghe, è stata la conseguenza della violenza degli hooligans inglesi. Nonostante le immagini crude in diretta e trasmesse successivamente non si è smesso di morire per e durante una partita di calcio. Nazzareno Filippini, Vincenzo Spagnolo, Antonio De Falchi, Ciro Esposito, Daniele Belardinelli, Filippo Raciti, sono solo alcune delle vittime del pallone dal 1985 ad ora. La violenza è e rimane, seppur in maniera minore, uno degli elementi che accompagna la vita da stadio. Ultras che fanno sospendere gare, che chiedono di restituire maglie parlando di indegnità, gruppi che tengono in ostaggio società e squadre, senza contare cronache di accoltellamenti, aggressioni e minacce. E nemmeno le misure attuate in questi anni, come i biglietti nominali o la tessera del tifoso hanno risolto il problema.

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Roberto Brambilla
È nato a Sesto San Giovanni, quando era ancora (per poco) la Stalingrado d'Italia. Ha scritto di sport e temi sociali per il web e per la carta. Ama la Storia e le storie. Al mattino insegna ai ragazzi, al pomeriggio sogna Berlino (Est).