Monografia

Quando lo sceicco si chiamava Berlusconi

Quando gli arabi non si interessavano al calcio e gli inglesi erano esclusi dalle coppe, entrava in scena lui. Violentando il pallone italiano (e non solo)

Di Silvio Berlusconi, morto lunedì 12 giugno 2023 all’età di 86 anni, e della sua storia di proprietario e presidente del Milan, in questi giorni avrete letto di tutto, e spesso con toni adulatori sin troppo smaccati: dal punto di vista dei risultati, intendiamoci, è stata vera gloria, eccome, e appunto ne hanno già parlato in tanti, anche più titolati di noi. Non staremo nemmeno a fare l’elenco dei successi. Tutto bene, tutto perfetto? Non esattamente, perché poi quel lungo periodo va anche contestualizzato e messo rapportato ai cambiamenti che ha indotto nel calcio italiano e nella sua gestione. Qui tutto si complica, compreso il giudizio. 

Perché, quando oggi ci si indigna e si fanno mille distinguo in merito ai capitali che arrivano dai Paesi del Golfo, o comunque dagli arricchiti del nuovo capitalismo com’erano considerati poco tempo fa anche i russi e i cinesi – prima della guerra gli uni e della decisione di abbandonare l’investimento nel calcio e far scoppiare la bolla i secondi –, bisognerebbe ricordare che il primo sceicco è stato proprio Silvio Berlusconi. Solo che ce l’avevamo qui, e allora si ragionava sulle magnifiche sorti e progressive di un calcio che con lui cambiava marcia anche nell’immagine proiettata in Europa e nel mondo, e mica si andava tanto per il sottile. Sembrava andare bene a tutti e, considerando che il primo Berlusconi calcistico non era ancora il Berlusconi politico (a prescindere dallo stretto rapporto che, negli anni Ottanta, ebbe per Bettino Craxi), non sussisteva nemmeno una lontana percezione relativa al fatto che le sue mosse potessero avere un fine propagandistico, almeno dal punto di vista elettorale.

Non che i club italiani non avessero avuto, prima di lui, grandi mecenati, i famosi «ricchi scemi», categoria divenuta proverbiale proprio nel calcio. C’erano stati già prima di lui imprenditori fondamentali nel capitalismo italiano (quelli arricchitisi sulle spalle dell’Italia) come gli Agnelli e Moratti padre, solo per fare due esempi, ma è indiscutibile che Berlusconi abbia impresso al pallone italiano e alle sue economie un’accelerazione brusca. Qualcuno l’ha chiamata rivoluzione, ma non essendo nata dal basso forse è più corretto parlare di un golpe calato dall’alto, come quasi sempre accade in ambito imprenditoriale: qualcuno decide, gli altri eseguono, si adeguano o restano indietro, oppure soccombono. Così è stato.

Il calcio è sempre stato il regno dello spreco ma, prima della celeberrima discesa di Berlusconi in elicottero all’arena civica di Milano, esistevano dei limiti. Limiti che lui ha superato ampiamente: avendo capito immediatamente l’importanza del calcio dal punto di vista propagandistico in senso lato, Berlusconi ha iniziato a offrire cifre che per i colleghi presidenti del tempo erano pressoché inarrivabili o, anche se arrivabili in teoria, non così nella pratica, tali da far decidere che il gioco non valesse la candela. Ricordate il Milan di Sacchi e Capello, vero? Ecco, erano periodi in cui le rose delle squadre erano di 16-18 giocatori (del resto i calendari prevedevano nel complesso almeno un quarto di partite in meno rispetto a oggi, erano consentite due sole sostituzioni, i ritmi e gli sforzi fisici richiesti dal calcio di allora erano meno intensi), e si arrivò al punto in cui giocatori in piena attività e titolari in grandi club sceglievano il Milan pur sapendo di andare a fare panchina. Insomma: prendeva tutto Berlusconi. L’esempio più eclatante fu Fernando De Napoli, colonna del Napoli e dell’Italia di Vicini che nel 1992, ventottenne, passò al Milan allettato da un contratto miliardario. Bene: in due anni a Milano avrebbe giocato appena 9 partite.

Il 1992, dopo tutto, fu anche l’anno dell’affare Lentini, dei 10 miliardi di lire in nero versati all’allora presidente del Torino Gian Mauro Borsano (oltre ai 18,5 regolari) per il trasferimento dai granata ai rossoneri appunto di quello che era considerato, a ragione, uno dei migliori talenti italiani dell’epoca. Il Milan gli fece firmare un contratto che prevedeva 8 miliardi di lire lordi l’anno per quattro anni più un pagamento una tantum alla firma di 5 miliardi. Emerse poi, dalle carte della Procura, che il Milan avrebbe chiesto a Borsano una garanzia nel caso l’affare fosse saltato e questo si fosse trovato a dover restituire la somma ricevuta in anticipo: a copertura, in pegno, sarebbero state offerte al club rossonero le azioni del Torino. Ora, va segnalato che, dopo un lungo processo, la prescrizione (grazie alla nuova legge sul falso in bilancio voluta dal governo Berlusconi II) non portò ad alcuna condanna, ma al proscioglimento per gli imputati, nonostante la circostanza del pagamento fuori bilancio fosse stata ammessa dallo stesso Borsano e poi verificata attraverso lo svolgimento di rogatorie con la Svizzera (per chi se lo stesse chiedendo: la solerte giustizia sportiva non si accorse di nulla).

Qualcuno iniziò a definire il calciomercato del Milan come qualcosa di immorale, ma comunque sia, per poter competere, i proprietari dei club italiani iniziarono a svenarsi. Quando l’Inter passò da Pellegrini a Moratti figlio, iniziò per i nerazzurri un’era di rincorsa caratterizzata da una incredibile violenza sui conti del club, e bisognerebbe ricordare inoltre che, a forza di inseguire un esempio del tutto peculiare, il calcio italiano produsse le famose «sette sorelle» di fine anni Novanta, club dai conti disastrati e, lo si sarebbe scoperto poi (si  pensi al Parma), anche fasulli. Berlusconi aveva alterato la competizione ma, avendolo fatto per primo, era colui che guidava il gruppo, una visione al contrario dei colleghi l’aveva e gli altri, quasi tutti, sbandarono. Magari qualcosa vinsero, ma pagandolo poi a caro prezzo (Parma, Lazio, Fiorentina). In questo senso, insomma, a fronte di un mercato distorto, il problema è stato chi ha voluto fare come Berlusconi, non essendo Berlusconi.

Per capirci: come ha ricostruito Eurosport nel 2017, al momento della cessione del Milan da parte del gruppo capitanato da Berlusconi, Fininvest in 31 anni ha iniettato capitale per 900 milioni di euro. Può sembrare poco, ma bisogna tenere in considerazione che, nei primi dieci anni, la differenza tra ciò che investiva Fininvest nel Milan e ciò che investivano gli altri proprietari nei rispettivi club era abissale. Dal 1986 al 2016 si è calcolato inoltre un risultato netto di -860 milioni di euro.

Berlusconi, appunto, era lo sceicco dell’epoca, e il suo strepitoso Milan – che era avanti anni luce anche in termini di comunicazione, marketing e sfruttamento di nuove opportunità commerciali e diversi mercati: in questo senso sì, fu il primo a dotare un club calcistico italiano di una struttura davvero aziendale – prese l’abbrivio per diventare il club italiano più vincente in ambito internazionale. Ora, il tema che stiamo per inserire nel dibattito non deve essere considerato come l’intenzione di diminuire la portata dei successi (e ci mancherebbe altro), ma è un dato che va sottolineato: il Milan di Berlusconi ottenne i suoi primi e straordinari trionfi internazionali sfruttando anche la squalifica dei club inglesi per i fatti dell’Heysel. Cinque anni dal 1985 al 1990, sei per il Liverpool (fino al 1991).  Se è vero che il calcio inglese era ben lungi da ciò che sarebbe diventato con la Premier League, è vero altresì che, al momento della squalifica, l’Inghilterra occupava il primo posto nella classifica del coefficiente UEFA dedicata alle nazioni e il Liverpool guidava quella dedicata ai club. L’Everton, che aveva ottenuto il miglior coefficiente di quell’anno, avrebbe saltato due edizioni della Coppa dei Campioni, il Liverpool tre, l’Arsenal una. E non erano squadre di poco conto, sebbene molto raramente questo discorso entri in ballo quando si torna con gli amarcord a quel periodo.

Il rapporto tra sport e tv è ancora un’altra cosa, un altro tema, particolarmente rilevante, che rientra però nella parabola interessantissima dell’editore, più che in quella del presidente calcistico. Ma, anche lì, si parla di un cambio di passo.

Ciò che è accaduto dopo è storia, ma a distanza di tempo è necessario riguardare i primi passi e rileggerli anche alla luce del senno del poi, ampliando la disanima alle conseguenze e alle ricadute, non necessariamente positive, su tutto il movimento. Almeno sino all’ingresso in politica, momento dal quale si possono rilevare alcuni cambiamenti relativi all’utilizzo propagandistico del Milan (ne scriviamo in un altro articolo), si può pacificamente sostenere che anche nel calcio italiano – così come nella storia democratica dell’Italia – ci sia stato un prima e un dopo Berlusconi. E, se al Milan è andata benissimo, difficilmente si può dire altrettanto allargando il discorso.


Bibliografia

Per il processo Lentini prosciolti Berlusconi e Galliani, La Repubblica, 5/11/2002
Enrico Turcato, Milan, nell’era Berlusconi 900 milioni di euro per 29 trofei, Eurosport, 13/4/2017
Federico Ferri, Berlusconi negli anni Ottanta ha cambiato il calcio in tv, Sport.sky.it, 12/6/2023
Lorenzo Longhi, Coccodrillo in vita per Silvio Berlusconi, Mowmag, 7/4/2023

Lorenzo Longhi
Emiliano, ha esordito con il primo quotidiano italiano esclusivamente web nel 2001 e, da freelance, ha vestito (e smesso) casacche anche prestigiose. Di milioni di righe che ha scritto a tamburo battente gran parte è irrilevante. Il discorso cambia quando ha potuto concedersi spazi di analisi.