Stielike

Hornby più di Wenger

Può un libro fare per un club, a livello di riconoscibilità globale, più di quanto può fare un allenatore o un presidente?

Per un libro, l’incipit è fondamentale. Se è pessimo, è altamente improbabile che migliori in seguito. Nello sport trasposto in letteratura, ne esiste uno straordinario che compie trent’anni proprio in questi giorni.

Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé.

(I fell in love with football as I was later to fall in love with women: suddenly, inexplicably, uncritically, giving no thought to the pain or disruption it would bring with it.)

Per chi lo ha riconosciuto e per chi no, è l’incipit di Fever Pitch, tradotto in italiano come Febbre a 90° nel 1997, contestualmente all’uscita dell’omonimo film di David Evans con Colin Firth. Era la fine dell’estate del 1992, Fever Pitch usciva nel Regno Unito per l’editore Gollancz. Nick Hornby, 35 anni, era un giornalista e saggista: non era alla sua prima pubblicazione (quella fu una raccolta di saggi sulla letteratura statunitense, Contemporary American Fiction), certo non abbastanza per definirsi uno scrittore*. Quella autobiografia, che è molto più che un’autobiografia in realtà, fu un successo clamoroso da subito – vinse nel 1993 il William Hill Sports Book of the year, divenne un film appunto – e, ancora oggi, è una pietra miliare della letteratura sportiva, per non dire in un certo senso della letteratura…

Lorenzo Longhi
Emiliano, ha esordito con il primo quotidiano italiano esclusivamente web nel 2001 e, da freelance, ha vestito (e smesso) casacche anche prestigiose. Di milioni di righe che ha scritto a tamburo battente gran parte è irrilevante. Il discorso cambia quando ha potuto concedersi spazi di analisi.