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Codice d’onore, legge e norma sociale nel calcio italiano

Un malinteso senso del rispetto e dell’onore – da portare, da difendere o da rispettare –, nel calcio, prevale ancora nei confronti del rispetto della legalità, considerata derogabile quando si scontra con i suoi (dis)valori atavici

di Guglielmo De Feis

L’incredibile e inquietante vicenda dell’uscita dallo stadio da parte della Curva dell’Inter – in segno di ‘rispetto’ dovuto al capo ultrà ucciso – non è un’eccezione particolare, ma una regola generale della cultura calcistica italiana. Possiamo ragionevolmente ritenere, infatti, che qualunque altra curva italiana si sarebbe comportata allo stesso modo, ricorrendone analoghe circostanze. In una tribale cultura dell’onore esiste un codice comportamentale – tramandato di generazione in generazione – che non necessita di alcuna struttura scritta. Esiste e si rispetta per la sola ragione che «così si è sempre fatto».

Nel calcio italiano, in una sola settimana, si sono verificati almeno altri due esempi di comportamenti da codice dell’onore, a prescindere dal clamoroso caso di San Siro.

L’aggressione al tifoso dell’Inter – preso a schiaffi in tribuna a Firenze per aver esultato platealmente al gol della sua squadra – e lo striscione di quelli della Juve contro due loro calciatori (colpevoli di non averli salutati con deferenza al termine di una partita), rientrano nella medesima categoria comportamentale: un codice culturale non scritto.

In una nazione, l’Italia, nella quale la legge scritta è alla base del sistema giuridico, nonché una millenaria caratteristica culturale, esistono (verrebbe da dire, persistono) norme tribali non scritte che hanno una forza quasi da legge costituzionale e che vengono fatte rispettare, o addirittura imposte con la forza, ai riottosi.

In questi tre episodi è possibile ravvisare la differenza tra codice d’onore tribale, legge universale e norma sociale.

Migliaia di persone sono state obbligate ad abbandonare un posto per il quale avevano pagato un regolare biglietto e a interrompere la visione di uno spettacolo sportivo, per assistere al quale, molti di loro, si erano sottoposti a un lungo viaggio. 

Il tifoso interista, dopo essere stato aggredito a Firenze, è stato colpevolizzato dagli insider della cultura calcistica che, pur ritenendo inaccettabile (e ci mancherebbe altro) la vigliacca aggressione, hanno comunque sottolineato la sua «mancanza di rispetto» per essersi presentato con i colori sociali «sbagliati» (quelli della squadra in trasferta) in territorio «nemico» (il settore riservato ai padroni di casa).

I tifosi della Juve si sono sentiti autorizzati a riprendere pubblicamente – con uno striscione vagamente minaccioso* – due calciatori della loro squadra che non avevano voluto omaggiare, col saluto alla curva, quelli tra loro che erano andati a Lecce.

Un malinteso senso del rispetto e dell’onore – da portare, da difendere o da rispettare –, nel calcio, prevale ancora nei confronti del rispetto della legalità, considerata derogabile quando si scontra con i suoi (dis)valori atavici.

È paradossale che in una nazione nella quale praticamente ogni cittadino, a cui venga contestato un comportamento scorretto, sia solerte a rispondere con l’immancabile frase «dove sta scritto che non si può fare?», si trovi il modo di attenuare o addirittura giustificare comportamenti palesemente illegali sulla semplice base di una regola non scritta, ma consuetudinaria.

Il codice tribale degli stadi – basato su malintesi concetti di dignità, rispetto e onore – continua imperterrito a «essere legge» nel calcio italiano. Decine di migliaia di persone, ancora oggi, sono ‘acculturate’ secondo anacronistici sistemi di valori tribali, secondo i quali andare allo stadio non dovrà mai essere considerato come «assistere a uno spettacolo» ma come «difendere i propri colori e la propria tribù». 

La cosiddetta «mentalità ultras» consiste proprio in questa forma di educazione culturale delle nuove leve. 

Il rifiuto nei confronti del calcio moderno – dichiarato ad ogni partita con striscioni e cori – non è altro che una spinta reazionaria verso i cosiddetti valori tradizionali del calcio italiano da stadio, quello degli anni Settanta.

Proprio per questo motivo, sono molto gravi e, a tutti gli effetti, inaccettabili, le parole di molti esperti insider del calcio che legittimano con le loro interviste, in televisione o sui giornali, questo anacronistico codice tribale calcistico. 

Continuare a riferirsi a quanto è sempre avvenuto nel calcio, considerandolo «normale» significa semplicemente non essersi resi conto che le norme sociali sono ormai cambiate e, insieme a loro, anche il concetto stesso da esse derivante: quello appunto di ‘normalità’.

Obbligare le persone a uscire dallo stadio, picchiare un tifoso perché ha la maglia della squadra in trasferta, minacciare o insultare i calciatori della propria squadra per comportamenti ritenuti non ortodossi – sono da sempre comportamenti «illegali» – ma sono oggi anche da considerare socialmente «anormali». Senza giustificazioni o attenuanti.

*All’indomani della vittoriosa trasferta di Lecce, gli ultrà juventini hanno appeso uno striscione fuori dallo stadio di Torino con la scritta «Gatti, da te non ce lo aspettavamo; Pinsoglio, di te lo sapevamo; la Juve siamo noi».


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Guglielmo De Feis è docente di Cultural Intelligence al Settore Tecnico di Coverciano (nei corsi Master Uefa Pro, Direttore Sportivo, Preparatori Atletici, Osservatori) e al Coni (al corso per Team Manager).

La Cultural Intelligence è la capacità di relazionarsi e lavorare efficacemente negli ambiti interculturali e multiculturali. Psicologia individuale, sociologia antropologica, comunicazione cross culturale e interculturale sono tutte discipline direttamente dipendenti dalla Cultural Intelligence (C.Q.).