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Nomi e soldi, l’affare dei naming rights

I naming rights sono una delle fonti di entrata per i club non solo calcistici. Ecco la loro storia

Una fonte di entrata sicura e in alcuni casi estremamente redditizia. La vendita dei naming rights, dei diritti di denominazione di stadi, centri sportivi e tornei è diventata una costante per le società sportive professionistiche e anche per organizzatori di eventi sportivi. Per loro un’occasione di incassare liquidità per un periodo medio-lungo, mentre chi paga ha la massima visibilità possibile, addirittura superiore a quella del main sponsor.

In principio fu.. il baseball La pratica della vendita dei naming rights non è nata così recentemente come si potrebbe pensare. Il primo tentativo fu quello dei proprietari dei Boston Red Sox che nel 1912 vollero chiamare il loro neonato impianto Fenway Field, dato che possedevano un’azienda, la Fenway Realty che a sua volta prendeva il nome da un vicino parco. Quattordici anni più tardi, nel 1926 William Wrigley Jr, azionista di maggioranza dei Chicago Cubs e magnate del chewing gum, volle denominare così l’impianto di casa. La vera svolta fu nel 1953 quando il proprietario dei St.Louis Cardinals August Busch Jr. propose di rinominare lo Sportsman’s Park Budweiser Stadium, come uno dei marchi di birra di cui è titolare. Il commissioner della MLB rifiutò, ma l’imprenditore non si diede per vinto e rilanciò, chiedendo di poter chiamare l’impianto Busch Stadium, come uno dei fondatori del marchio. Questa volta però i vertici della MLB approvarono.

Roberto Brambilla
È nato a Sesto San Giovanni, quando era ancora (per poco) la Stalingrado d'Italia. Ha scritto di sport e temi sociali per il web e per la carta. Ama la Storia e le storie. Al mattino insegna ai ragazzi, al pomeriggio sogna Berlino (Est).